FRIULI, 1976

Il 6 maggio del 1976 non ero in Friuli, ma a casa mia a Lecco, ma fuggii in strada lo stesso con tanta altra gente spaventata dal sordo muggito e dalle scosse che avevano fatto tremare i piani alti delle case in riva al lago. 
Qualche giorno dopo ricevetti la cartolina che mi convocava a Salerno per il servizio di leva. Avevo giurato a me stesso che non avrei mai fatto il militare, ma non me la sentivo di deludere mio padre, che si era arruolato volontario nell'esercito a diciott'anni: a quell'epoca rifiutare la divisa voleva dire passare un bel po' di anni in galera, cosa che non mi sarebbe dispiaciuta, ma che avrebbe bruciato le speranze che i miei genitori avevano riposte in me. Ne avevo il diritto? Pensai di risolvere il problema facendomi scartare, e così iniziai un digiuno che durò per le due settimane precedenti la partenza. Ero ridotto pelle e ossa quando arrivai barcollando alla porta della caserma, ma nessuno ci fece caso. Continuai a bere solo acqua fino a che un paio di giorni dopo mi fecero la visita d'arruolamento. Ero sicuro che mi avrebbero mandato in ospedale e poi a casa, ma non sapevo che l'ufficiale medico era abituato a vedere scheletri come me, e non solo perchè il trucco era utilizzato da altri che non volevano fare il militare, ma anche perchè in caserma arrivava tanta gente che a non mangiare era abituata da una vita... "Abbele arruolato", fu il verdetto. Abile io? Per un paio di settimane riuscii a "imboscarmi", sfuggendo a tutti gli appelli davanti alla sartoria della caserma: abile forse, ma la divisa non l'avrei mai indossata. Poi un giorno mi venne sott'occhio un rotocalco dove si parlava del terremoto in Friuli e del bisogno di medici fra i soccorritori. Mi venne la bella idea di scrivere alla redazione (era l'Europeo) per urlare la mia rabbia di trovarmi in una caserma a godermi il sole in attesa di diventare un "trasmettitore", mentre su in Friuli c'era bisogno di medici. Pubblicarono la lettera. Ingenuamente pensai di aver vinto: o mi sbattono a Gaeta, pensai (e mio padre non può darmi torto), o mi congedano e mi mandano ad aiutare i terremotati. Il capitano che mi fece chiamare aveva invece una terza soluzione: "Ho l'ordine del Commissario Straordinario per il Friuli, Zamberletti, di spedirti a Gemona, ma non posso obbedire se prima non vesti la divisa e non fai i tiri obbligatori col fucile. E guarda, hai proprio una fortuna sfacciata: i prossimi tiri sono previsti al poligono di Pontecagnano fra tre giorni". Accettai, consolandomi col pensiero che in fondo quella divisa veniva indossata senza tanti problemi da quei ragazzi che magri come me non lo erano diventati in qualche settimana, ma lo erano stati da che le loro madri li avevano messi al mondo. E in quei tre giorni mi abbuffai alla mensa con loro, mangiando pastasciutta e insalata su vassoi perennemente unti, che venivano lavati per modo di dire con canne dell'acqua, come se fossero automobili. Pastasciutta e insalata che più buone non le ho mai più mangiate. Arrivai a Gemona una sera tardi, con un treno che terminava lì la corsa perchè poi i binari erano impercorribili, accolto da un silenzio spettrale, che ricordo ancora con qualche brivido e dolore, ma anche con nostalgia. La divisa mi dava ancora fastidio addosso, ma entro pochi mesi ne sarei stato orgoglioso.

Gemona del Friuli, 1976. Tende e baracche sullo
sfondo del Monte San Simeone, epicentro del terremoto

Resiutta, alla sede del Centro Operativo Soccorsi

Il cameratismo dimostrato dalla signorina qui sopra (un'infermiera, volontaria civile) era solo per l'occasione della foto.  Eravamo tutti troppo occupati per trovare il tempo per avventure sentimentali. In mutande ci vedevamo solo tra militari al mattino quando ci facevamo la barba.