Caustico e ironico, occhi cerulei dello scienziato e dell’uomo che sa guardare in profondità cose e persone. Elegante come – le parole sono sue –, forse solo i medici di un tempo sapevano ancora essere, quelli che alla certezza della scienza associavano cultura filosofica e umiltà e che si iscrivevano alla facoltà di medicina per l’ambizione di voler tendere alla perfezione morale, etica e tecnica. Nicola Diogyuardi, barese con metà sangue friulano, classe 1921, direttore scientifico di Humanitas e autorità a livello mondiale nella ricerca delle malattie del fegato, ha risposto alle domande di Humanitas Salute.

Professor Dioguardi, chi deve ringraziare per quanto è riuscito a realizzare professionalmente?
Oltre a mia moglie Magda, che mi sopporta da tanti anni e che non fa più caso se vado a letto alle nove e mi alzo alle quattro del mattino per studiare, voglio ricordare i due i mentori che mi hanno insegnato il mestiere del medico. Il primo è stato mio suocero, Armando Businco che fu professore di anatomia patologica dell'Università di Bologna dove mi sono laureato. Mi ha trasmesso il rigore formale non solo nella medicina, i principi dei meccanismi della “ricognizione” dell’osservato, insieme alle teorie della discriminazione e della classificazione. L'impiego delle parole nella descrizione dei fatti che esprimano nel loro insieme un concetto e uno solo. Bandendo ogni ambiguità e possibilità di accomodamenti non solo in sala settoria o davanti a un microscopio, ma con tutti. Non quindi costellazioni di ipotesi senza un filo logico che tenga insieme il tutto come, ad esempio, accade spesso nella medicina di oggi, interamente settorializzata.

Quando la diagnosi è inclemente qual è il comportamento da tenere con il paziente?
Non ci sono linee guida, esistono tanti modi per mettere il paziente in condizione di sapere ciò a cui può andare incontro. Ogni paziente ha una personalità unica e a questa personalità occorre sapersi rivolgere.

Chi è l'altro mentore?
Il prof. Luigi Villa, clinico medico dell’Università Statale di Milano. Da Lui ho imparato l'approccio al paziente non paternalistico, ma cordiale: guardarlo negli occhi, porre domande precise e rigorose in modo da ricevere risposte il più possibile utili per formulare una diagnosi. Mi ha soprattutto istillato la lealtà verso il malato che ti si affida.

Sulla lavagna del suo studio ha riportato alcune massime e detti. Che cosa significano per lei?
Una massima di solito ha il compito di esprimere in poche parole molti concetti senza sotterfugi. Non un aut aut inesorabile come una linea guida, o un protocollo. Una massima chiede solo di essere considerata nella pratica quotidiana senza inaridire l’intelletto.

Vediamole una ad una:

ALLA MORTE BISOGNA ARRIVARE VIVI
Il compito principale del medico è dare una vita, una vita sopportabile al proprio paziente. E “paziente” deriva dal termine latino “patior” che significa “soffro” e non va quindi confuso con un semplice cliente da soddisfare secondo i moderni dettami della customer satisfaction.

ESSERE SERI NON VUOL DIRE PRENDERSI SUL SERIO
Credo che molte autorità accademiche dovrebbero segnarsi questa massima sulle pareti dei loro studi e farne uno stile di vita.

THINKING IS BETTER THAN KNOWING, BUT NOT BETTER THAN LOOKING
Guardare con gli occhi della mente per riconoscere la reale natura di ciò che si osserva e che appare a tutti allo stesso modo. Così sono state poste le basi di scoperte che hanno cambiato il mondo.

PER ESSERE FELICE È NECESSARIO NON SAPERLO
Nei momenti difficili, mi consolo rileggendo questa citazione di Fernando Pessoa. E i ricordi vanno agli anni universitari, quando ero felice e non me ne rendevo conto.

CHI PIANTA DATTERI NON LI MANGERÀ, MANGIA SOLO QUELLI CHE QUALCUN ALTRO HA PIANTATO
È un viatico per chiunque cerchi di fare scienza e vale per qualsiasi professione. Questa massima insegna al ricercatore qualcosa di più della semplice pazienza. Si tratta di impostare la propria vita nella consapevolezza che quello che fai, dici, pensi, studi e proponi forse non sarà accettato sul momento, ma deve ugualmente essere fatto, pensando che potrebbe diventare utile, anche se non fondamentale, per le generazioni future.

CRIA CUERVOS Y TE SACARAN LOS OJOS
Questo detto si riferisce a uno degli accadimenti costanti della professione universitaria: crea corvi e ti caveranno gli occhi. È infatti nella natura dei discepoli, sia i più bravi sia i meno bravi che, nella migliore delle ipotesi, vogliono superare il maestro per prenderne il posto.

PIÙ ALTO SI VOLA, PIÙ PICCOLI SI APPARE A CHI NON SA VOLARE (Nietzche)
Non è un atto di presunzione, esprime solo un momento di profonda malinconia. Quando non mi sento capito o quando parlo con chi ha perso la voglia e la capacità di sognare, questa massima diventa per me come un rifugio intellettuale. Non voglio però essere frainteso, per ignorante intendo solo chi non sa. Chi non vuole sapere è solo uno stolto.

QUOD DEUS VULT PERDERE DEMENTAT PRIUS (Cicerone)
Agire contro il buon senso o l’ordine naturale delle cose è segno di perdita della capacità razionale. L'iniziativa velleitaria ed emotiva non è tollerata dalla natura e se mantenuta senza ravvedimento è segno di demenza. In ogni modo il dilettante fa più guai dell’ignorante, perché alla non conoscenza aggiunge la scarsa competenza.

LO STATO DI BUONA SALUTE NON PROMETTE MAI NIENTE DI BUONO
Il corpo umano è la macchina più complessa che ci sia e guai se non lo fosse, perché la sua complessità gli consente di utilizzare vie diverse per raggiungere un certo obiettivo. Quando la più dritta si consuma o non funziona più, l'organismo apre vie alternative (la Teoria Generale dei sistemi le chiama “equifinali”) che consentono il suo mantenimento. Un esempio molto concreto? La vecchiaia. Se bevi una certa quantità d'acqua a 18 anni non la espelli tutta, perché molta la utilizzi. Un vecchio la butta fuori quasi tutta, perché non la utilizza. E la ragione è semplicissima: molte strade che avrebbe potuto utilizzare quell'acqua sono state chiuse. L'organismo cerca però sempre una strada alternativa. È una legge naturale che riguarda l'organismo: quando questo non è più possibile, si muore.

Cosa vuol dire oggi essere un medico?
La professione del medico oggi va ridefinita. Molte ragioni hanno relegato la Medicina in una posizione nella società molto diversa rispetto al passato. Il medico, ad esempio, ha perso il contatto con la gente. In passato si rapportava agli altri direttamente con la propria scienza, il proprio nome e la propria morale. Oggi lo si vuole inquadrare in una disciplina etica, in linee guida “etiche”. Ma l'etica è storicamente e geograficamente individuata, tanto è vero che esistono popolazioni selvagge per le quali l'antropofagia è ammessa dalla società. La medicina come disciplina oggi è in crisi di crescita. Dall’uso di concetti puramente qualitativi, dopo essere passata ai metodi semiquantitativi, inizia ora ad impiegare concetti quantitativi. È il segno di una maturazione in senso tecnico scentifico di una disciplina affidata sino a ieri all’occhio clinico.
Occorre quindi una nuova filosofia che dalle linee guida e protocolli riporti alla ragione e al rigore scientifico. Solo così la Medicina tornerà ad essere vera scienza dedicata a scoprire il nuovo e l’impensato. Solo allora il medico non sarà più un robot e tornerà ad essere un uomo. Il problema di oggi è così comprendere e battersi per cambiare tipo di conoscenze e impostazione mentale. Ma tutto ciò è questione di cultura, non di amministrazione.

Un messaggio per i giovani che si iscrivono ora alla facoltà di Medicina
Di non dimenticarsi mai che l’imperativo categorico per un medico è la dignità che, kantianamente, si traduce nel trattare “l’umanità tanto nella tua persona, come nella persona di ogni altro sempre come fine e mai come mezzo”. Quindi non è niente di più della dignità di qualsiasi persona che sappia e si renda conto di essere solo un uomo.