12 gennaio 2010. Ginecologo uomo o
donna?
Quando, parlando con
delle donne, il discorso cade sulla mia professione, càpita a volte il fatto
curioso che qualcuna si senta in dovere di "scusarsi" perchè non è mia
paziente. "Sa, ho lo stesso ginecologo da quando ero una ragazza, e mi
sembrerebbe di fargli un torto a cambiarlo". Ci mancherebbe! Se mi augurassi
che le donne cambiassero ginecologo tutte le volte che ne vedono passare
all'orizzonte uno nuovo, non perderebbero clienti solo i miei colleghi, ma
ne perderei anch'io. Certo, poi alla fine il conto si pareggerebbe, perchè
quelle che perderei io sarebbero rimpiazzate da quelle che perdono i miei
colleghi, ma la giostra delle pazienti e dei ginecologi non conviene nè alle
une nè agli altri. La ginecologia richiede un rapporto più profondo e
duraturo di quello che può andar bene per l'oculistica o l'odontoiatria.
Ma torniamo alle donne che si scusano per il fatto di non essere mie
pazienti. Alcune non parlano di "fedeltà" al ginecologo cui sono abituate,
ma si giustificano piuttosto dicendo che loro vanno solo da
ginecologhe-donne e sarebbero in imbarazzo con un ginecologo-uomo. Ecco, se
le donne che vogliono mantenersi "fedeli" al loro ginecologo le capisco,
queste che si sentirebbero in imbarazzo con un ginecologo-uomo invece non le
capisco affatto.
Per quale motivo si sentirebbero in imbarazzo? Perchè credono che un uomo
non sarebbe in grado di capire i problemi di una donna? Se fosse questo il
motivo, forse non userebbero la parola "imbarazzo". In ogni caso però non
stanno parlando di confidare i loro problemi a un collega di lavoro o a un
amico, e nemmeno a un medico tout-court. Stanno
parlando di confidarli a uno specialista in ginecologia, diplomato da una
scuola post-universitaria, che prima di loro non ha visitato uomini con la
prostata ingrossata, ma donne, donne, e poi ancora donne. Lo stesso vale per
le ginecologhe-donne, che però hanno una marcia in più proprio per il fatto
di essere donne? No, se questa è la spiegazione razionale, non ci siamo.
La psiche umana lavora in modo da indurci a "proiettare" sugli altri le nostre esperienze personali,
generalizzandole a facendone la regola anche quando non sono generalizzabili
e non sono la regola. A meno che non sia una persona assolutamente
eccezionale, il medico che ha avuto un particolare problema di salute
tenderà a pensare che tutti i pazienti con quel problema di salute debbano
provare le stesse sensazioni che ha provato lui e debbano comportarsi come
si è comportato lui, e non possano invece provare una o più delle
tante possibili sensazioni o comportarsi in uno dei tanti possibili modi che
pure sono chiaramente descritti nelle pubblicazioni mediche. Per questo
motivo, quando si tratta di ginecologia, c'è il rischio concreto che le ginecologhe-donne
tendano a vedere i problemi delle loro pazienti attraverso le lenti colorate
e deformanti delle eventuali analoghe esperienze che hanno avuto "come
donne" o della presunzione di sapere e
di capire "in quanto donne". I ginecologi-uomini invece, a meno che non abbiano
sbagliato mestiere e non siano, come li definiva il mio professore di
Chirurgia, "preziose mani rubate alla vanga", non possono avere alcuna
presunzione di sapere e di capire per dono divino, ma devono umilmente
ascoltare ogni singolo problema e paragonarlo pazientemente a quanto insegna
la scienza medica. Minore quindi è il rischio che sbaglino, e minore è il
rischio che affrontino i problemi delle loro pazienti col sussiego di chi
"ci è già passato" o con la complicità gratuita e superficiale di
chi è "dalla stessa parte della barricata". È ovvio che questo mio discorso è una generalizzazione
e che ci possono essere benissimo ginecologhe-donne che non cadono in questi
errori, come ci sono ginecologi-uomini che avrebbero appunto fatto meglio se si
fossero dedicati a dissodare i campi, ma come tutte le generalizzazioni, se
ha il difetto di non valere per il cento per cento dei casi, ha però il
pregio di coprirne almeno il novanta per cento.
Ma torniamo alla parola "imbarazzo". Molto più facilmente indica proprio un
disagio legato al pudore. Una donna non deve parlare di mestruazioni con
uomo. Una donna non deve parlare di problemi di sesso con un uomo. Una donna
non deve far vedere le parti intime a un uomo. E men che meno una donna può
farsi toccare in certe parti da un uomo. Sì, ma in quale società questo è
vero? In quale cultura? Se la donna è nata prima degli Anni Quaranta o, se è
meridionale, prima degli Anni Settanta, questo atteggiamento è comprensibile
(anche se non si può certo dire che tutte lo condividano). Oppure, se è
mussulmana osservante, questo atteggiamento è comprensibile qualunque sia la
sua età. Ma se escludiamo queste ipotesi, da dove vengono quel pudore e
quell'imbarazzo?
Fondato o meno che sia, viene spontaneo il sospetto che quel pudore e
quell'imbarazzo siano la manifestazione di un problema sessuale che può
avere due diverse origini. O si tratta della paura più o meno subconscia di
non avere freni sessuali sufficientemente forti, e di rischiare quindi di
lasciarsi coinvolgere emotivamente dalla situazione, che innegabilmente ha
connotazioni sessuali; oppure si tratta di un'omosessualità latente, che
porta a trovare sgradito quell'eventuale coinvolgimento, anche se solo
potenziale, e quindi a preferire che l'altro "attore" sia una donna. Nulla
di male in tutto questo, sia ben chiaro. Con alcune pazienti mi trovo
abbastanza spesso a discutere delle loro fantasie sessuali, e la cosa ha
sempre stimolato in me simpatia e mai giudizi negativi. E d'altra parte,
anche se il dato di fatto contraddice in parte le ipotesi appena fatte, ho
un certo numero di pazienti dichiaratamente omosessuali. Rimane però l'idea
di base che il disagio nel farsi visitare da un ginecologo-uomo, se giunge
fino al punto di rendere la visita veramente impossibile, è con ogni
probabilità un sintomo di problemi psicologici che meriterebbero quanto meno
un'autoanalisi da parte della donna. Se non un colloquio con un
ginecologo-uomo... ;-) |
7
marzo 2010. Sono lecchese.
I
primi tempi della mia professione a Mandello mi capitava abbastanza spesso
di sentirmi chiedere da qualche paziente in difficoltà con l’italiano se
riuscivo a capire il dialetto. In effetti la domanda non era così peregrina,
dato che io mi esprimevo quasi esclusivamente in italiano e, nonostante
facesse rima con cognomi lombardi come Arosio, Gambirasio o Ravasio, il mio
cognome non suonava affatto lombardo.
Quando rispondevo che non c’era problema e che potevano benissimo parlarmi
in dialetto, la loro curiosità faceva a volte sgorgare la domanda
successiva: “Ma alura lü d’indove l’è?”. Già, di dove sono?
Dovunque fossi venuto al mondo, se fossi nato da genitori entrambi emiliani
o entrambi siciliani, potrei dire di essere in sostanza o emiliano o
siciliano. Ma non è così. Mia madre è nata in Emilia e mio padre è nato in
Sicilia. Non posso essere nè emiliano nè siciliano. Devo per forza essere
del luogo in cui sono nato, tanto più che, oltre ad esserci nato, in questo
luogo ho vissuto l’infanzia e i miei primi dodici anni di scuola.
Dunque, sono nato a Lecco e, per la precisione, in via San Nicolò, patrono
della città, nella clinica delle suore Misericordine, a cinquanta metri
dalla Basilica e a centocinquanta dal Municipio. Dopo qualche giorno sono
stato portato nella casa dei miei genitori, in via Bezzecca, a cento metri
da piazza Manzoni e a trenta metri dal lago. Sì, perchè allora la via
Bezzecca terminava sulla riva di quello che, prima che lo scarico di detriti
edilizi e la costruzione del Ponte Nuovo lo restringessero fino a farne il
primo tratto del fiume Adda, era ancora il “lago”. Ho passato la mia
infanzia a giocare in riva al lago, dove mia nonna materna, che abitava
anche lei in via Bezzecca, nell’edificio che faceva angolo con via Azzone
Visconti, andava a lavare i panni, inginocchiata sull’apposito “asse” che si
portava avanti e indietro da casa. Ricordo ancora che mi diceva: “Quando il
ponte (il Ponte Nuovo) sarà finito, potremo andare a Malgrate in cinque
minuti". Ho fatto le scuole elementari alle “De Amicis”, che mia madre, che
vi aveva frequentato l’ultimo anno delle elementari, chiamava ancora col
vecchio nome di “Berta”, sostituito pochi anni prima quando, caduto il
fascismo, era divenuto disdicevole che una scuola continuasse ad essere
intitolata a Giovanni Berta, che era un fascista ammazzato dai comunisti nel
febbraio del 1921. E, tanto per stare in tema, la targa sulla via delle
scuole elementari “De Amicis” diceva “Via Giovanni Amendola”, ma mio padre
la chiamava ancora “via Manlio Sonvico”, col nome che aveva avuto dal regime
che aveva così voluto ricordare un giovane di Villalbese, che studiava
chimica a Pavia, ucciso dai socialisti per le sue idee nazionaliste.
Ho fatto poi le medie alla “Tommaso Grossi”, in via Ghislanzoni, dove mia
madre aveva fatto i primi quattro anni di elementari, e ho avuto in prima
come professore di lettere il poeta premanese Carlo Del Teglio.
Terminate le medie, mi iscrissi al liceo scientifico “Giovanni Battista
Grassi”, da poco trasferito al terzo piano del complesso di Largo Montenero
(al secondo piano c’era il liceo classico “Alessandro Manzoni” e al piano
terreno l’Istituto Magistrale “Giovanni Bertacchi”, che non era ancora
statale ma comunale). La preside era la professoressa Antonietta Nava, per
anni vice-sindaco di Lecco e assessore alla cultura, sorella di monsignor
Delfino Nava, canonico del Duomo di Milano e grande studioso del Manzoni. La professoressa Nava aveva una
particolare simpatia per mio padre, e un’analoga simpatia la dimostrò poi
sempre anche per me. E, a proposito di simpatia, godetti anche della
simpatia di due miei insegnanti di lettere, il professor Giuseppe Cereda,
che sarebbe poi passato alla RAI, ricoprendo fra il 2000 e il 2002 anche
l’incarico di direttore di RAI 3, per diventare poi direttore del Centro
Sperimentale di Cinematografia, e la professoressa Isidora Castenetto, che
di lì a qualche anno sarebbe diventata la preside dell’Istituto Magistrale,
istitituto che avrebbe poi accompagnato negli anni difficili dei cambiamenti
che portarono alla trasformazione in liceo linguistico e in liceo
psico-socio-pedagogico, e che attualmente è docente alla Facoltà Teologica
dell'Italia Settentrionale.
Durante gli anni del liceo fui in rapporti di amicizia con persone come
Giacomo De Santis, che mi iniziò all’attività giornalistica facendomi
scrivere per il suo Giornale di Lecco; Aroldo Benini, fondatore e
direttore del periodico lecchese Terzo Ponte, libraio della
Libreria dell’Angelo di via Carlo Cattaneo, e per anni direttore della
pubblicazione Archivi di Lecco; Aloisio Bonfanti, Angelo Borghi, e
Gianfranco Scotti, studiosi di storia e cultura locali; Roberto Rotasperti,
che sarebbe diventato il primo direttore generale dell’Azienda Ospedaliera
di Lecco; Plinio Agostoni, della famiglia proprietaria dell’ICAM, che
avrebbe poi preso le redini della ditta; Carlo Secchi, che sarebbe diventato
parlamentare europeo e rettore dell’Università Bocconi; Giuseppe Pogliani,
che sarebbe diventato sindaco di Lecco; Giulio Boscagli, che sarebbe
diventato anche lui sindaco di Lecco e poi capogruppo di Forza Italia al
Consiglio Regionale della Lombardia; Roberto Castelli, che sarebbe diventato
docente nella sede lecchese del Politecnico di Milano, deputato della Lega,
e Ministro di Grazia e Giustizia; Roberto Formigoni, che sarebbe diventato
presidente del Consiglio Regionale della Lombardia; Riccardo Fiocchi,
dirigente della Fiocchi Snaps, che avrebbe ricoperto anche le cariche di
presidente della sezione lecchese degli Ostelli della Gioventù e del
Comitato di Lecco della Croce Rossa Italiana, e che era anche cugino di mio
padre. E, a proposito di parenti, era cugino di mio padre anche Mario Ceppi,
fondatore della FILE-Leuci e unico patron a riuscire a portare il
Lecco in serie A. Mio padre inoltre ha lavorato per anni per il Comune di
Lecco, soprattutto nell’Ufficio Contratti dove ebbe modo di farsi conoscere
ed apprezzare da esponenti dell’economia lecchese, e dopo la pensione fu per
alcuni anni direttore di sala del Teatro della Società.
Dopo il liceo la mia vita è stata influenzata anche da persone che con Lecco
non c'entravano niente. Solo per citarne qualcuna, ho avuto rapporti di
amicizia, di conoscenza o di collaborazione col prof. Giulio Maccacaro,
ordinario di Statistica Medica e Biometria a Milano e severo critico del
sistema sanitario e politico allora in auge; il prof. Gaetano Fara, allora
direttore dell'Istituto e della Scuola di Specializzazione in Igiene
dell'Università di Milano e uno dei principali artefici della Riforma
Sanitaria; Sir John Dewhurst, ginecologo della casa reale britannica; il dr.
Ian Munro, direttore della rivista medica inglese The Lancet; il
prof. Petr Skrabanek, professore di medicina al Trinity College di Dublino e
uno dei critici più spietati della superficialità in medicina; e a questi
nomi noti potrei e dovrei aggiungere moltissimi altri nomi di persone che in
Italia, in Europa o negli Stati Uniti, hanno in qualche modo contribuito al
mio carattere. Ma, se da una parte mi sento cittadino del mondo più che
cittadino italiano, dall'altra, se devo cercare una "terra patria" alla
quale riconoscermi legato, ritorno per forza a Lecco.
Credo quindi che questo possa bastare a stabilire un legame fra me e la mia città,
che va oltre il semplice fatto di esserci nato. Ma vorrei anche aggiungere
un altro nodo che mi lega ad una delle istituzioni storiche di Lecco. La
prima volta che sono entrato alla Canottieri Lecco avevo meno di un anno. Mi
ci portava mia madre quand’ero ancora in carrozzina. E alla Canottieri ho
imparato a nuotare e a fare i tuffi (anche se a stare a galla ho imparato a
San Giuliano di Rimini, dove andavo in vacanza con i miei genitori e mia
sorella). Alla Canottieri ho passato tanti pomeriggi a giocare a scacchi col
mio padrino della Cresima, Eugenio Ceppi, altro cugino di mio padre, che ha
avuto per tanti anni uno studio di avvocato a pochi passi dalla Canottieri e
che è il padre di Giulio Ceppi, affermato architetto che continua la
tradizione dei grandi architetti lecchesi iniziata da Mino Fiocchi. E devo
terminare con una nota triste, dato che sono l’unico sopravvissuto del “tre
senza” (senza timoniere e senza il quarto, che non abbiamo mai trovato) che
avevo formato nella speranza di sfondare nel canottaggio con due miei
compagni del liceo, poi prematuramente scomparsi. Oggi quando vado in
Canottieri non trovo più le modeste barche a remi e i dinghy che erano a
disposizione dei soci. Non ce n'è più bisogno. La darsena dove ci allenavamo a nuotare
straripa di barche a vela e motoscafi dei nuovi soci-nuovi ricchi. Quando
guardo questa gente, tronfia e sicura di sè, che calpesta il suolo della
"mia" Canottieri come se ci fosse nata anche se è nata nelle valli, mi sento
io l'estraneo, io l'ultimo arrivato. È la stessa sensazione che provo quando
percorro la via Cavour per andare a prendere il treno, e la vedo, "isola
pedonale", ingombra di auto di lusso parcheggiate davanti a negozi di
abbigliamento che hanno sostituito le drogherie e i negozi di alimentari che
c'erano quando ero un
ragazzo. Poco dopo la metà, sulla sinistra, c'era Signorelli, una
tabaccheria che vendeva anche giocattoli e giochi vari. Adesso c'è un
negozio che vende vestiti di moda. Su in alto, sulla destra, c'era una volta
il negozio della Venchi-Unica, pieno di dolci e cioccolato, dove mi portava
sempre mio padre e dove ho provato per la prima volta l'emozione del
"cioccolato bianco". Adesso al suo posto c'è l'ennesima boutique. Una
tristezza unica! E negli anni questa gente che dice di amare Lecco solo
perchè ha spremuto questa città come un limone ha coperto il "mio" Caldone
per farci passare un fiume di macchine, ha distrutto la Caserma Sirtori, per
trasformarla nella sede dell'ufficio stranieri della Questura, davanti alla
quale gli stranieri vengono puntigliosamente educati su quello che noi
intendiamo per rispetto della legge: auto e persino camion parcheggiati in
divieto di sosta e di fermata, sui marciapiedi, auto, anche della Polizia,
che effettuato svolte vietate per non farsi altri cinquanta metri e girare
alla rotonda... I tempi in cui i vigili mi fermavano quando circolavo in
bicicletta, per controllare se mi funzionamevo i freni sono
irrimediabilmente passati, finiti... Questa gente ha rovinato una città che,
nella sua operosa modestia, era il luogo ideale per vivere. E "loro" si
sentono lecchesi. A farmi sentire estraneo in casa mia dunque non sono solo,
per dirla coi leghisti, quegli extracomunitari che si comportano con lo stesso
disprezzo per le regole che hanno le "razze padrone", ma anche questi
"lecchesi" che nella mia città sono calati provenendo dalla periferia e dai
dintorni o da altre regioni d'Italia con la pretesa di fare "la bella vita"
e di farla subito, costi quel che costi in termini di disonestà, cattive
maniere e incultura. Gente che della mia città "si serve", quando io mi sono
sempre fatto un punto d'onore di "servire" alla mia città. Gente
che sta facendo di tutto per togliermi le uniche radici che potevo avere.
Ma, nonostante questa gente, io continuo a sentirmi lecchese. I
barbari sono loro, anche quelli che magari possono vantare bisnonni nati
qui. |
6 agosto 2010. "Les femmes veulent mettre
de l'amour, du pouvoir ou de l'argent dans le sexe, si bien qu'elles
oublient d'y mettre du plaisir".
"Le donne si ostinano a mettere nel
sesso l'amore, il potere, o i soldi con lo stesso impegno con cui
dimenticano di metterci il piacere". L'autrice di questa frase, Françoise
Simpère, non è esattamente la scrittrice di cui è facile vantarsi di aver
letto i libri. Ciò nonostante ammetto di averla letta. La frase si trova a
pagina 135 dell'edizione "Pocket" di Des désirs et des hommes, una
delle sue raccolte di racconti erotici. Ma Françoise è anche l'autrice di Guide des amours
plurielles: pour une écologie amoureuse, un libro in cui parla di un
modello di relazioni amorose o, meglio, umane, che potrebbe scandalizzare
non solo i benpensanti, ma anche molte persone che si considerano
disinibite: un modello così conosciuto e popolare in Italia che da noi non
ha ancora un nome. In francese si chiama polyamour e consiste in
sostanza nella possibilità per entrambi i partners di una coppia di
mantenere relazioni amorose (e sessuali) con altre persone, senza rompere la
coppia e anzi con l'intenzione di non dare a nessun'altra persona il
ruolo particolare che spetta al partner "principale". Per la Simpère (v.
l'intervista a Doctissimo) questo modello
non deve sostituire il modello monogamico, ma deve essere semplicemente una
possibilità in più offerta dalla società a chi desidera farne il suo modello di vita.
Perchè ne parlo? Perchè sono stanco di una società che offre e impone un
unico modello di relazioni inter-personali in ambito sessuale. Soprattutto
sono un ginecologo che ha scelto questo lavoro perchè ama le donne (in un
senso più ampio di quello sessuale) e sono stanco di vedere donne la cui vita viene
distrutta dal modello monogamico obbligatorio, quel modello che ha insegnato
alle donne a "ostinarsi a mettere nel
sesso l'amore, il potere, o i soldi" e a dimenticarsi che dovrebbero
metterci soprattutto "il piacere". C'è nel nostro sistema sociale una sinergia perversa fra tradizioni, leggi
ed educazione che determina l'infelicità di molte donne spingendole alla
ricerca e alla pretesa dell'impossibile. Promettere al proprio compagno o
alla propria compagna una "fedeltà" intesa come impegno a "esserci" quando
l'altro ha bisogno, e promettere di privilegiare il suo bisogno rispetto a
quello di altri, è possibile, e mancare a questa promessa non ha scusanti.
Promettere una "fedeltà" intesa come impegno a non innamorarsi mai più di
qualcun altro e a non cedere mai più con nessun altro all'impulso sessuale è
invece una promessa che "vende" all'altro qualcosa che non si possiede. È
una promessa vuota, una vera e propria truffa. Il fatto che alcune persone
riescano a mantenere questa promessa non dipende dall'"onestà" di quelle
persone, ma da un insieme di fattori casuali, in parte innati ma non per
questo "merito" di quelle persone, in parte contingenti e ambientali.
Purtroppo l'illusione che questo genere di promessa possa essere fatta
induce la società a imporre a tutti il modello monogamico e induce la
maggior parte delle persone a pretendere la "proprietà esclusiva" del
partner. Alcune donne però non riescono a entrare
in una relazione monogamica, o perchè non hanno qualità fisiche o di carattere
tali da farle scegliere come compagne "uniche"; altre perchè il destino fa
loro incontrare solo uomini obiettivamente inadatti a quel tipo di relazione
assoluta; altre infine perchè le loro aspettative sono troppo alte, e la loro
sfiducia verso gli uomini come compagni in una relazione esclusiva o la loro
paura di sbagliare in una scelta percepita come assoluta bloccano ogni loro
capacità di lasciarsi andare. Troppe donne considerano il sesso, che madre
natura ha concepito come meccanismo di piacere "dopo" il quale può nascere
(ma non necessariamente) il desiderio di convivenza e di famiglia, come
invece un dettaglio poco importante in una "storia" romantica da vivere come
attrici di un film, o come un mezzo per condizionare gli uomini, o come
moneta di scambio. E così facendo queste donne condannano sè stesse e i loro
partners ad un'infelicità la cui via d'uscita può sembrare la separazione o il divorzio:
una via d'uscita che è invece un rientro nello stesso errore. Da giovane pensavo che questi
problemi si sarebbero potuti risolvere sostituendo la monogamia con la
"comune", vale a dire con la convivenza "stile '68" di più donne e uomini in
una comunità di mezzi, di lavoro, e di figli. Oggi, dopo trent'anni di
riflessioni sull'infelicità che mi riferiscono le mie pazienti, sono
d'accordo con Françoise: il problema è il modello unico, ed è questa unicità
che va eliminata. Va bene la monogamia, per chi trova l'anima
gemella, e va bene anche la "comune", per chi ci crede, e va bene il
"poliamore". L'importante è che diamo spazio, per chi vuole, a relazioni aperte fin
dall'inizio, che possano offrire rifugio anche alle persone meno fortunate. |
Premetto:
non sono un berlusconiano e non difendo Berlusconi. A suo tempo,
con alcune lettere ai giornali, ho difeso Marrazzo.
Se la mettiamo sul piano politico, le disavventure piccanti del cav. Silvio Berlusconi, che hanno quasi
monopolizzato l'attenzione dell'opinione pubblica italiana in questo inizio
d'anno, mi interesserebbero un po' meno di niente. Se mi interessano è
perchè mi regalano
l'occasione per sottolineare ancora una volta l'ipocrisia di quella parte
della nostra società che si proclama tollerante, indulgente, o addirittura
sessualmente "liberata", ma poi si comporta come una congrega di beghine.
Fino a qualche anno fa era la destra che predicava la moralità borghese, ed
era la sinistra che lottava per cancellare il monopolio di quella moralità. Oggi una
"destra" che trova politicamente conveniente non avere regole morali è
costretta a difendere un vecchio ultrasettantenne ubriaco di potere dagli
attacchi di una "sinistra" che trova politicamente conveniente occupare gli
spazi ideologici una volta prerogativa dell'Azione Cattolica.
Se questo squallido spettacolo avesse per protagonisti solo omuncoli
politici privi di idee che si danno battaglia nei "talk-shows" televisivi per dovere d'ufficio, potrei
gustarmi la scena e sorridere. Purtroppo però anche una larga parte di
coloro che manipolano e modellano l'opinione pubblica, giornalisti e
conduttori televisivi, si dimostra ferocemene moralista. E questo mi fa
paura.
La morale è una cosa, il moralismo un'altra. E il moralismo porta a
un'intolleranza estremamente pericolosa. Berlusconi è stato accusato di "aiutare" solo donne belle,
giovani, e apparentemente disponibili. E allora? Mica lo fa da presidente
del consiglio. Lo fa da vecchio bavoso, del quale possiamo ridere, almeno
finchè non diventiamo vecchi e ricchi anche noi, ma sul cui diritto di far
quel che vuole del proprio tempo e del proprio denaro non possiamo
sindacare. E a che scopo "aiuta" quelle donne? Per farci sesso? E se anche
fosse? Se a Rosy Bindi il sesso non piace, non lo faccia, e lo stesso vale
per tutte le altre e tutti gli altri che non condividono gusti e abitudini
del sig. Berlusconi. Ma, oltre a tutto, dobbiamo per forza berci la storia
secondo cui il nostro premier fa orge di sesso a settant'anni passati? Se anche fosse uno dei pochi che
a quell'età ce la fa ancora, una basterebbe e avanzerebbe, dopo cento
milligrammi di Viagra e con l'aiuto di abbondanti spruzzi di Ventolin e
quaranta gocce di Micoren. Ma forse non fa sesso in prima persona, e si
accontenta di eccitarsi stando a guardare. Se così fosse, noi cosa facciamo?
Ci mettiamo a ridere di lui? Dopo aver applaudito chi ha tolto
l'omosessualità dai disturbi del comportamento sessuale, ci mettiamo a
ridere dei "matti" affetti da voyeurismo o, peggio, li condanniamo? La
nostra "tolleranza" e la larghezza delle nostre vedute sono veramente
impressionanti!
Ma è davvero così difficile credere che Berlusconi sia solo un povero vecchio che si "innamora"
facilmente di un certo tipo di donna: giovane, bella, che ha dovuto usare la
propria sessualità per sopravvivere? Anche se apparentemente sconosciuto
agli psicologi, sessuologi, sociologi e tuttologi che imperversano dagli
schermi televisivi, questo è un comportamento abbastanza normale negli uomini
di una certa età che hanno
avuto un certo successo nella vita. Qualche cretino ha osservato che, per poter
credere che Berlusconi abbia voluto "fare del bene", occorrerebbe che nel
residence dove ha ospitato quelle donne giovani, belle, e apparentemente
disponibili avesse ospitato anche qualche donna vecchia e brutta e qualche
cassintegrato. Ma questo è lo schema mentale di una persona sotto la
cinquantina e con i sani principi dell'Azione Cattolica! Berlusconi ha più
di settant'anni e non ha mai ragionato secondo gli schemi dell'Azione
Cattolica. Una simile ignoranza della psicologia può passare se esibita da
persone in mala
fede, motivate dal tentativo di sopraffare l'avversario in un dibattito
televisivo, ma c'è il rischio che sia reale, e questo fa veramente paura. Vorrebbe dire che
stiamo vivendo in un mondo che non è progredito molto da quello che bruciava
le streghe sul rogo, magari accusandole di aver avuto rapporti contro natura
con il demonio. Uguale ignoranza della psicologia dimostrano coloro che
prendono per oro colato quello che Ruby ha detto al telefono alle amiche, e
che sospettano che siano manipolazioni pagate le sue smentite ufficiali. Ma qualcuno di
questi "esperti" ha mai parlato con una ragazzina? Già donne mature che
hanno avuto una vita difficile raccontano spesso storie nelle quali è
arduo o addirittura impossibile separare la realtà dalla fantasia, le
cose veramente accadute dalle vanterie più spinte: e questi "esperti" danno
per scontato che sia vero quello che una ragazzina che ha avuto una vita
difficile e che adesso ha conosciuto nientemeno che l'uomo più ricco e
potente d'Italia dice al telefono ad un'amica? Il guaio è che la convenienza
o la partigianeria politica non sono sufficienti da sole a rendere
accettabili nè simili idiozie, nè lo straordinario impegno profuso dalla
magistratura nel rovistare nella spazzatura del sig. Berlusconi. È
necessario che vi siano nella nostra società una curiosità morbosa verso il
sesso inteso come sporcizia e, soprattutto, una pericolosa propensione alla
condanna di tutto ciò che è contrario alla morale borghese. La "rivoluzione
sessuale" non è servita a niente. Anzi, non c'è mai stata.
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